NEUROSCIENZE “NEUROSCIENZE ANEMOS” GEN-MAR 2015. ANNO V, N. 16.

L'UOMO MACCHINA

di Davide Donadio

Neuroscienze dogmatiche

Quando l’estensione di un paradigma può entrare in un vicolo cieco

 

La fine del XIX secolo e l’inizio del XX furono un periodo di importanti novità in filosofia, come in molti settori della scienza. Specificamente per la filosofia, il nuovo approccio inaugurato da Bertrand Russell, Gottlob Frege e Ludwig Wittgenstein portò alla nascita della corrente analitica, specie nei paesi di lingua inglese, corrente che avrebbe fatto emergere la filosofia americana dal suo stato di subordinazione nei confronti di quella europea.
Oggi l’approccio analitico è ancora fertile e diffuso, ma è anche oggetto di riflessione storiografica.
Ora, poiché questi brevi interventi (rubrica L’uomo macchina) hanno tutt’altra finalità rispetto a quella didattica, chi scrive darà per scontato che il lettore conosca in linea di massima quali furono le caratteristiche dell’approccio analitico, e qui basti ricordare che l’attenzione iniziale fu concentrata sul linguaggio, sulla logica del linguaggio e che questo modo di procedere piano piano fu applicato a tutti i rami della riflessione filosofica, dalla morale, passando per l’estetica, fino alla metafisica, inizialmente ritenuta un insieme di proposizioni vuote.
Ormai sappiamo che qualsiasi “scuola”, movimento o metodo (uso queste parole in senso generico) compie un percorso che grossolanamente si può indicare con le tappe della novità, della sistematizzazione delle metodologie impiegate, e dell’esaurimento che si può canalizzare a sua volta in nuovi movimenti o fossilizzarsi.
L’approccio analitico, che come dicevamo sopra è ancora vivo e prolifico, andò incontro ad un momento di sclerotizzazione qualora il veto per la metafisica cominciò ad apparire controproducente. Vi fu il tentativo, dunque, di applicare anche a questioni ontologiche (cosa esiste, cos’è quello che esiste) un metodo logicamente rigoroso.
A parere di chi vi scrive, gli importantissimi risultati di questa svolta, ancora in corso, hanno sottolineato che il modo di procedere analitico è entrato in un pericoloso vicolo cieco. Siamo entrati, in definitiva, nella terza fase di sviluppo che sta portando all’esaurimento di questa fase del pensiero occidentale (mi si perdoni l’estrema semplificazione storiografica, certamente opinabile, ma strumentale alle considerazioni che seguono).
Quando un metodo diventa generalmente riconosciuto, diviene poi paradigma, per mutuare un’espressione di Thomas Kuhn relativamente alla scienza, e corre il pericolo di diventare un complesso di dogmi applicati acriticamente.
Sappiamo che fin dal XIX secolo per estensione rispetto alla fisica da alcuni settori delle scienze naturali emerse un approccio che possiamo, come definizione di comodo, chiamare biologico-riduzionista. È stato l’approccio corrente e dominante degli ultimi decenni e ha riguardato anche le neuroscienze, anzi è andato identificandosi con le neuroscienze proprio là dove queste ultime hanno preteso di sostituirsi in toto all’indagine sull’uomo.
Un altro fenomeno ricorrente è l’estendersi dei paradigmi ai diversi settori della cultura, spostandosi dall’alveo in cui erano nati: alla letteratura, alla pubblicistica, ai discorsi nella cultura di massa. Quello che dobbiamo domandarci, avendo come riferimento il destino a cui sta andando incontro il pensiero analitico, è se le neuroscienze stiano pericolosamente andando verso una visione ideologica. E sappiamo che quando il pensiero si tramuta in ideologia diviene immobile e persino dannoso per il progredire della scienza e del pensiero.
Alcuni segnali sembrano indicare che l’idea di uomo portata avanti dalle neuroscienze sia effettivamente penetrata capillarmente nella cultura di massa e stia cominciando a interagire in modo determinante con molti campi del sapere. Né è indice il termine “neuroscienze” accostato sempre più spesso ad oggetti di indagine ben diversi dal sistema nervoso centrale e dalle scienze cognitive. Neuroscienze e morale, neuroscienze e musica, neuroscienze e letteratura, sono prolifici potenziali binomi che hanno permesso di rivedere sotto un altro punto di vista, questioni tanto distanti tra loro.
Ma se si scorre la massa di studi prodotti, divulgativi o no, si comincia a percepire una certa applicazione meccanica e semplificata del paradigma neuroscientifico. L’assunto, che come punto di partenza rimane ancora valido, è che tutto ciò che è frutto di cognizione, emozione, rappresentazione sia determinato dalla neurobiologia. Ne consegue, che qualsiasi cosa sia riconducibile all’umano, possa in definitiva essere ricondotta al paradigma neuroscientifico.
Quello che viene messo in discussione qui, dunque, non è tanto la veridicità dell’approccio generalizzato, ma la sua utilità. Alcuni campi, che generalmente possiamo definire artistici, non traggono un gran vantaggio una volta ridotti ai meccanismi neurobiologi che li hanno determinati. Questi campi, per svolgere una funzione che è loro propria (come la funzione estetica, per esempio), hanno bisogno di rimanere auto-referenti, per così dire non-scientifici. Per limitarsi ad un esempio, forse non perfettamente calzante ma indicativo, è come concentrare l’attenzione sul procedimento meccanico e tecnico e sulla struttura chimico-fisica dei colori di una pittura, piuttosto che indagarne i significati antropologici, psicologici, sociali, e così via. Se cerchiamo, e troviamo, nella funzione estetica i presupposti neurobiologici che predispongono l’uomo alla funzione estetica, alla rappresentazione delle emozioni e delle idee attraverso l’arte, abbiamo fatto un servizio importante alla ricerca, ma non abbiamo toccato l’arte in sé.
Tutto questo per dire che anche quando un paradigma rimane vero (oggi), l’estensione indiscriminata di questo paradigma non è detto che sia prolifica e utile sempre e comunque.